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Empolichescrive con Leonardo Lastilla

Eventi

#savethedate

Venerdì 31 Gennaio ore 17,30

in Biblioteca comunale “Renato Fucini” di Empoli

per il ciclo “#Empolichescrive”

𝗟𝗲𝗼𝗻𝗮𝗿𝗱𝗼 𝗟𝗮𝘀𝘁𝗶𝗹𝗹𝗮

presenta

alcune delle sue ultime opere letterarie

📔Il Piccolo Tour

BZbooks, 2024

📗Una donna, un uomo

Giacovelli Editore, 2024

📘Le quotidiane allucinazioni

Antea Edizioni, 2023

dialoga con l’autore

Carlo Ghilli, Direttore della Biblioteca Comunale “Renato Fucini” di Empoli

ingresso libero

NON MANCATE!

(note e info sui libri e sull’autore in fondo alla pagina)

❗e per voi in anteprima un estratto da un racconto di Leonardo Lastilla ambientato ad Empoli

DPCM

Roberto porta i pensieri nelle scarpe. E ne ha già consumate tre paia. Sono quasi due anni che
Roberto cammina. Ogni giorno, due volte al giorno. La prima di mattina, subito dopo la colazione,
per dare aria ai pensieri del giorno precedente. La seconda nel tardo pomeriggio, dopo aver
trascorso la giornata a riempirsi la testa di pensieri nuovi da portare a spasso per decantarli. Roberto
ama camminare ma non è certo un fanatico. È uno sportivo, secondo la categorizzante vulgata, e
negli anni ha trovato in alcuni sport amati il modo di sfogare le tossine interiori dell’esistenza. Sport
dove ritrova la vita, piena e senza compromessi, dove le emozioni sono pura espressione e non
sottoposte al giudizio altrui. Ma nel tempo sospeso come una mongolfiera che non scende più, certi
sport non si potevano più fare. Nella vita di Roberto, tutto era diventato sospeso, anche il lavoro,
che come quello di tanti, richiedeva di essere svolto in presenza. Roberto sentiva di aver perso quasi
ogni cosa, di essere stato gettato in una fossa che qualcun altro avrebbe riempito fino a seppellirlo.
Era vivo, certo, ma non era consolante esistere sotto vetro. Vivere senza realtà era comunque una
forma di morte. La bestia aveva prepotentemente ravvivato il memento mori, che nella liquida
superficialità di questa epoca, molti avevano chiuso a chiave nello sgabuzzino della realtà. Ma,
Roberto rifletteva ad alta voce, anche il memento vivere era fondamentale, specie adesso.
Fu quindi all’emanazione del primo di tanti odiosi DPCM che Roberto decise di interpretarlo a
modo suo e leggerlo come un acronimo: Devi Poter Camminare Molto. Da quel giorno, anche
contro i regolamenti, Roberto decise che camminare sarebbe stata la sua resistenza, a piedi armati.
D’altronde la libertà non è qualcosa che ti danno ma è ciò che scegli, giorno per giorno. E già da
molto tempo prima del tempo immobile di questo terribile inferno, rimuginava sul fatto che la
maggioranza delle persone preferisce e sceglie il lutto alla lotta. Non era un semplice scambio di
vocali ma una profonda constatazione: invece che sgominare la realtà affermando se stessi nel
tentativo di forgiare la vita a propria immagine, tanti preferivano comprarla a buon prezzo al
mercatino dell’usato oppure sceglievano l’anonimato passivo, una chiusura in se stessi che non era
resistenza ma una fuga codarda, un lutto interiore preventivo, appunto, per non morire sul campo di
battaglia del confronto con se stessi. Un’assunzione di non partecipazione, un patto di non
belligeranza per non rischiare di rimanere delusi dimenticando che è il rischio ad essere il motore
che fa girare il mondo.
Ed ora che il lutto era diventata la cifra quotidiana della realtà, anche se non direttamente e
personalmente toccati da esso, Roberto vedeva sempre più anime listate di nero. Un lutto
permanente a prescindere dal fatto che si concretizzasse in un decesso. Una sorta di abdicazione

dalla vitalità. Per questo, forse, quando la bestia è arrivata, ha trovato terreno fertile: coscienze già
da tempo senza fiato.
Camminare era quindi la sua lotta quotidiana, un modo di essere e affermare la sua esistenza:
cammino dunque sono. Anche contro le regole e i controlli. L’unica volta che fu fermato per
chiedergli dove abitasse e a quanti centimetri di distanza fosse dalla sua residenza rispose,
aiutandosi con la testa che indicava un punto: “Lí!”. Perché in linea d’aria era effettivamente vicina
la sua casa: la vedeva. Gli estensori del decreto avevano considerato la linea d’aria? I poco vigili, e
poco urbani, lo guardarono interdetti ma lo lasciarono andare anche per il dislivello in cui si trovava
rispetto a loro, essendo lui sull’argine del fiume e loro sotto, impigriti nella loro macchina da cui
non vollero scendere.
All’inizio erano camminate intorno al perimetro di casa, poi a carezzare gli argini del fiume e
infine, in un crescendo inevitabile, Roberto allungò verso la campagna, il più lontano possibile.
Voleva mettere più chilometri possibile fra sé e il tempo. Camminare era vivere. Più camminava e
più si sentiva vivo. E la sua camminata diventò un percorso lungo e indefinito. La strada che
Roberto percorreva era quasi tutta amaramente asfaltata. Ma amava quando essa si apriva sulla
campagna circostante e come piano piano i suoi occhi si colorassero di verde e si interrassero nel
campo arato di qualche contadino a ritrovare l’humus da cui veniamo. Odori e suoni ancestrali,
spesso dimenticati, che lo facevano riconnettere con la sua vera essenza. Conigli, anatre, galline,
cani, erano gesti, musi, versi da scrutare e imparare.
I cani, già. Ne incontrava tanti nei suoi percorsi. Dietro recinti e cancelli. Roberto non sapeva tanto
sugli animali e i cani in particolare gli generavano infinite curiosità. A guardare dentro quegli occhi
si chiedeva per esempio come facessero a resistere al freddo a volte rigidissimo oppure se lo
riconoscevano quando passava, se avevano memoria di lui, visto che si incrociavano ogni giorno. E
se lo chiedeva perché a volte quei cani abbaiavano forte quando lui arrivava, altre lo guardavano in
silenzio, altre volte sembravano annuire. Ma poi si diceva che era impossibile si ricordassero di lui
perché non lo avevano annusato e l’odore, credeva, era la stretta di mano di un cane. Che non c’era
stata. Di uno, un rauco boxer, sapeva il nome, Ettore, perché lo aveva letto sulla targhetta del
cancello. Roberto si divertiva a chiamarlo ed Ettore si voltava sempre, rispondeva a quel richiamo.
Solo che adesso era lui a portare la museruola. Quel guardarsi fissi era come un saluto. Ed era
convinto che anche a Ettore la pensasse cosí. Molto meglio di alcuni amici, pensava Roberto, che
non si voltano più quando li chiami.
La strada costeggiava anche un grande fiume e un paio di assenti affluenti. A Roberto si stringeva il
cuore vedere quei letti scavati e preparati ad accogliere ma inconsolabilmente vuoti e secchi. Era
come un amore non corrisposto, e gli dava una tristezza enorme quella immagine, al punto che

avrebbe voluto prendere un tubo di gomma per annaffiarli. Bastava la solitudine umana a rabbuiarlo
per non dover sopportare anche quella della natura.
Queste camminate di Roberto erano ritmate da incontri, osservazioni, introspezioni. Gli incontri non
andavano più in là di un buongiorno o buonasera ma con gli abituali frequentatori di quelle strade,
era comunque cresciuta una tacita familiarità che però rimaneva nell’alveare del riconoscimento
visivo. Con gli altri, estemporanei viaggiatori, si era sviluppato uno strano anti-galateo che andava a
sostituire quello di più antica consuetudine. Se infatti, in tempi ormai andati, alzare il cappello in
segno di saluto tutte le volte che si incrociava qualcuno era la norma, oggi alzarsi la mascherina al
crocevia dell’alterità era la forma di non saluto più comune. Paura e diffidenza erano ormai le
indotte nuove forme di convivialità. I più recenti biglietti da visita con cui presentarsi in società.
Nascondersi ancora prima di conoscersi. “Che umanità fragile siamo diventati!” pensava Roberto.
Da tanto tempo vi rifletteva. La bestia ha solo rivelato quella che di fatto aveva preso forma.
Eravamo già chiusi in lockdown mentali, estraniati dalla realtà circostante in cui gli altri facevano
capolino solo se ammessi, temporaneamente, nella chat della propria anima. La bestia aveva solo
amplificato tutto. Roberto andava dicendo e predicando da tempo che siamo diventati digitali senza
impronte: non lasciamo più il segno, non ci facciamo più imprimere dalla realtà e dagli altri. Che se
ce le prendessero, le impronte, probabilmente non troverebbero nulla. Lockdown senza
introspezione, segregati dietro schermi a cristalli liquidissimi dove prolifera il nulla
autoreferenziale. Al punto che i lockdown fisici imposti dall’alto sono maldigeriti proprio per
l’obbligo di dover guardare negli occhi un altro da sé, invece che distrattamente e di sfuggita come
accade di solito. Guardare un volto per più di dieci secondi, riconoscersi in quello sguardo è
diventata sfida impossibile, a cui si rinuncia. E farlo innesca un’esplosione psichica che manda in
frantumi. Ecco perché, in fondo, alzare la mascherina, non è poi così difficile. È quasi un gesto
benefico e benedetto per evitare un’esposizione imbarazzante.
Roberto non sapeva come si chiamassero tutti quelli che incontrava o salutava nel suo vagabondare.
Avrebbe voluto fermarli per chiederglielo ma nessuno si fermava. Tutti andavano, non sapeva dove,
ma nessuno sembrava dare il fianco ad un possibile scambio. Anche quando Roberto rallentava,
invitando ad un ipotetico dialogo, gli altri quasi acceleravano. Non si dannava per questo, era
comprensibile, diceva a se stesso. Vivere nella paura del contagio portava a questo. Ma se la paura
di essere contagiati dall’estraneità esistesse anche da molto prima? Di vedere gli altri come ostacoli
da abbattere nel videogioco della quotidianità per passare il livello e dormire tranquilli? Roberto ne
era convinto.
Allora, non conoscendoli, si inventava dei nomi per loro. Ad esempio, quasi ogni giorno, di solito il
pomeriggio, Roberto incrociava Enrico. Quando Enrico lo vedeva, o vedeva qualsiasi altra persona,

si zittiva. Altrimenti la peculiarità di Enrico, e Roberto si era fermato molte volte per osservarlo a
distanza, era quella di parlare ininterrottamente ad alta voce. Sì, Enrico parlava da solo, o forse
parlava con qualcuno che anni addietro non lo aveva ascoltato e a cui Enrico voleva a tutti i costi far
conoscere i suoi pensieri, le sue ragioni. Quasi tutti lo avrebbero chiamato pazzo, e di certo vi era
una certa instabilità in quel comportamento, ma Roberto pensava che Enrico fosse solamente solo,
troppo solo. E si era inventato una storia per lui. Si era immaginato che Enrico parlasse ad un amore
svanito, all’amore della sua vita che per qualche motivo lo aveva abbandonato. Roberto non era mai
riuscito a distinguere quello che Enrico proferiva ma il ritmo serrato, e spesso arrabbiato, di quel
monologo aveva l’aria di un dolore spalancato, un frutto aperto di netto in due che non si può più
ricomporre. Un dialogo che si era interrotto e a cui Enrico non si era rassegnato. Era come se Enrico
non avesse finito di esprimere quello che aveva da dire e allora ogni giorno lo ripeteva a se stesso
ad alta voce, lo ripassava, lo praticava, nella speranza che la persona a cui era destinato si facesse
viva prima o poi. Simulava anche la parte di lei, e Roberto non capiva se quella parte era ciò che
Enrico aveva ascoltato e lo aveva tranciato in due o era ciò che avrebbe voluto sentirsi dire ora.
Enrico cammina e parla, parla e cammina. Senza meta, probabilmente senza metà. Quando passa
vicino a qualcuno e si zittisce di colpo, Enrico diventa un bambino colto in fallo, e Roberto non può
fare a meno di addolcirsi. L’amore, se di amore si trattava, a volte è una cerniera lampo incastrata
che non scorre più.
L’amore tuttavia è anche folgorante bellezza. Come quella di due anziani che Roberto scorge ogni
tanto. Una volta, con il telefono, li ha anche fotografati, per quanto erano commoventi. Mano nella
mano inequivocabilmente passeggiano a passo lento lungo un breve tragitto probabilmente vicino
casa. Non si saprebbe dire chi dei due regge l’altro e lo trasporta. Si piegano a metà uno sull’altro e
ondeggiano come fossero una cosa sola, una trasparente bolla di sapone tenerissima che non
scoppia ma: anzi si espande, come il sorriso di Roberto.
È la loro oretta d’aria per uscire dalle monotone pareti casalinghe. E in quella passeggiata a cielo
aperto non mancano di manifestare il loro amore, la loro ancora di sicurezza. Tenersi per mano è
una certezza e una conferma. Basta poco, in fondo, per dirsi ti amo. E quando se ne andranno,
Roberto sognava, se ne andranno sicuramente insieme.
Antonio è invece un signore anziano che Roberto incontra più volte. Occhi svegli e viso aperto. Si è
fatto l’idea che Antonio passi tutta la giornata in bicicletta perché è lí che lo vede. Porta una tuta da
ginnastica e, quando fa più freddo, un giubbotto pesante. Antonio non scende mai, abita quella
bicicletta e vaga avanti e indietro per il quartiere. Gira infinite volte intorno a delle mura invisibili
ma che nella sua testa sono sicuramente chiare. Saluta tutti indistintamente e tira dritto. Antonio è
puro presente, non sembra avere né un passato né un futuro. Se li è scrollati di dosso. È un criceto

che gira nella ruota senza pretese. Fino a quando si stancherà e, sceso dalla bicicletta, la
parcheggerà insieme al suo sorriso nel posto riservato ai cortesi.
E poi ci sono Juan, Fatima, Li, Aradhana: ma come si chiamano veramente? Tutti i figli di altri
mondi arrivati lí, chissà come, chissà perché. Roberto li vede uscire o entrare, sfuggenti, come
ombre, quasi a scusarsi di essere lì, dentro o fuori appartamenti spesso fatiscenti, cadenti, mancanti.
Vorrebbe chiedergli come stanno, come va la vita, come tirano avanti. Soprattutto in questi giorni.
Ma la diffidenza, di altra matrice, fa parte anche di loro. Essere continuamente esclusi, emarginati,
condannati, giudicati, separati non può che alimentare quella diffidenza. Roberto arriva quasi a
pensare che esistano una diffidenza buona e una cattiva, o meglio una giustificata e una no. Ma che
in ogni caso questa diffidenza è purtroppo la misura delle relazioni umani odierne. E non va bene, si
dice Roberto. Non è possibile vivere chiusi dietro armature emotive inscalfibili. Qualcuno di questi
fiori recisi quasi si risente ad essere osservati perché Roberto, è una sua peculiarità, non stacca mai
gli occhi. Roberto guarda, ha sempre guardato. Ma sempre con l’intento di capire, osservare, e non
giudicare. Pochi lo capiscono però e molte volte lo sguardo di Roberto è stato denunciato, per
indiscreta invadenza, al tribunale dell’incomprensione. Roberto si sofferma perché gli altri non si
fermano. E soffermarsi è un modo per avvicinarsi. Alle vite provvisorie e improvvisate di questi
inevitabili esuli che, passata la frontiera, sono respinti al fronte della quotidianità e cadono inermi.
Roberto li guarda e, senza parole, assorbe la loro sopravvivenza fatta di piccole cose essenziali,
scarti del finto benessere, con cui costruiscono i loro castelli di dolore.
Martina e Giada bigiano la scuola spesso. Troppo spesso. “Ma è scuola quella di ora?” si chiede
Roberto. Dad: depressione a distanza. In un’epoca già segnata da deficit di attenzione e
concentrazione e altri disturbi la cui lista sempre più crescente (più o meno corrispondente alla
realtà se non piuttosto un meccanismo di difesa degli adulti disinteressati a riconoscere i propri
errori), ingombra le scrivanie dei presidi di mezzo mondo, ci mancava anche il deficit emozionale,
l’assenza di emozioni condivise con tutto il corpo e non dietro il paravento di schermi asettici e
degradanti. Crescere senza sentire l’odore dei compagni, senza sputare gioia o rabbia a secondo del
voto preso, senza intrecciare i propri sensi a quelli degli altri, senza l’incontro-scontro con i propri
mentori, non è crescere: è vegetare in un acquitrino melmoso.
Peraltro, sostiene Roberto, la scuola e le famiglie hanno abdicato da tempo al ruolo di insegnare
l’alfabetizzazione emotiva ai figli del domani. E questa ennesima, definitiva mazzata non farà altro
che decapitare questi figli che resteranno mancanti, segnati, amputati; destinati a vivere relazioni
nutrite di paura e diffidenza, incapaci di esprimersi. Questo sostiene Roberto. E non può che
rabbuiarsi.

Martina e Gioia ammiccano pericolosamente quando incrociano Roberto. Un pomeriggio gli
chiesero pure una sigaretta, proprio a lui che per farlo morire basterebbe fargli respirare il suo fumo,
l’unico odore che Roberto non riesce a sopportare e che gli blocca il respiro. Ammiccano e in
qualche modo forse cercano un malizioso tentativo di esplorare qualche tabù o stuzzicare il fascino
del proibito. Diventare adulte senza passare dal via, bruciare le tappe perché tanto le tappe sono
saltate per aria, a causa di mine vaganti piazzate da incuranti educatori. Roberto non capisce se
siano provocazioni innocenti o consapevoli seduzioni. Immagina se…. Ma ogni volta prosegue
imperterrito ripetendo che il fumo fa male. E che qualcuno dovrebbe seriamente occuparsi di
attivare l’erotica dell’insegnamento.
C’è un ragazzo di colore che Roberto vede ogni giorno. Si salutano e si sorridono. Roberto lo
chiama Teo. Teo corre. Corre con dedizione e convinzione e gira più volte intorno a un percorso
che si è inventato. Dove va? Cosa fa? Si sta allenando o gira a vuoto perché non sa cosa fare nel
tempo immobile? Roberto nota che il suo correre è particolare perché trascina una gamba il cui
piede quasi non si alza da terra. È un correre quasi strusciato. Quanta fatica deve fare. Si domanda
se non abbia subito qualche infortunio. Che comunque non lo ferma. Teo va, suda tantissimo. Teo
sorride. Teo vive. Pare una corsa contro il tempo, ma quale tempo? Roberto ha l’impressione che se
Teo si fermasse, svanirebbe. Come molti, in questa età vacillante.
Giulia è una ragazzina che canta. Roberto si è fatto l’idea che rientri da una scuola di musica che ha
scoperto essere lí vicino. La incontra solo il martedì pomeriggio, dopo la lezione, presume.
Tornando a casa, Giulia canta e balla e fa credere a Roberto che la vita sia tutta lí, in quella ingenua
e spensierata franchezza che neanche la bestia può annientare. E che i problemi cominciano quando
si smette di cantare a squarciagola, intonando spartiti scritti da altri. Lo chiamano crescere ma in
verità è la perdita delle radici che ci hanno messo al mondo. Passandogli accanto, Giulia non
interrompe il canto, anzi ne aumenta i decibel con la sfacciataggine disinibita che solo chi ha ali
piccole possiede. E a Roberto non dà per nulla fastidio questa provocazione. Anzi la rinforza,
fischiettando a sua volta e condividendo per pochi passi quella gioia senza filtri. E invidia quella
spensieratezza con la quale le sue scarpe sarebbe più leggere.
Infine c’è Marco davanti alla falegnameria. Marco è una statua di dolore e al telefono biascica
monosillabi di disperata afflizione, può darsi ad un cliente. La falegnameria era del babbo ma ci è
morto dentro qualche settimana fa per lo scoppio di un macchinario. Roberto passava ogni
pomeriggio davanti alla falegnameria, anche in quel giorno fatale, e senza parlarci, perché era
spesso nascosto nel buio della stessa, aveva percepito la totale bontà del babbo di Marco. Anche
senza conoscere, sono cose che si sentono, che ti attraversano come una luce limpida quando ci si
connette alla nostra profonda umanità che resiste anche sotto la valanga di indifferente egoismo con

cui la ricopriamo. Il babbo di Marco era un uomo piccolo, cesellato da una vita dedicata al legno,
taciturno e impolverato di bellezza. E Marco ne era la fotocopia giovane, l’apprendista uomo che ne
seguiva le orme e il cuore. Il giorno della tragedia Roberto vide un locale sventrato e i nastri della
polizia. Non c’era nessuno e non vide Marco per giorni. Solo mazzi di fiori che si accumulavano.
Qualche giorno dopo Roberto decise di avvicinarsi di più per provare a leggere qualche biglietto
che accompagnava quei mazzi. Il primo che lèsse era proprio di Marco: parole di amore puro e
devoto che lo fecero piangere. E se fosse stato lí lo avrebbe abbracciato con la paura tuttavia di
sbriciolarlo per quanto intuiva la fragilità di Marco. Quando lo rivide, non ebbe il coraggio di dire
nulla, anche se avrebbe voluto. Non voleva invadere quel dolore che aveva paralizzato Marco. La
falegnameria era tornata agibile ma Marco stava sempre davanti all’entrata, così lo vedeva Roberto,
come se non volesse entrare, non volesse disturbare il babbo. Toccava a lui portare avanti il lavoro
ma Roberto temeva che Marco non lo avrebbe fatto. Era un ragazzo che, senza il babbo, sarebbe
ritornato ciocco di legno.
Adesso che il tempo lentamente ricominciava a camminare, nel proiettore mentale di Roberto
scattavano le diapositive dei mille volti in cui si era imbattuto: una signora di una certa età che un
giorno lo fermò per chiedergli come arrivare al cimitero e Roberto, dopo averle risposto, non sapeva
se lo avesse chiesto per se stessa o per andare a trovare un defunto; un ragazzo nigeriano che a
fatica portava dentro casa un materasso usato, perché sotto certi tetti, un materasso è tutto quello
che conta; i ragazzi dell’est, albanesi e rumeni, che già dai pallidi mattini imburrati di foschia
bevevano birra e giocavano a carte, seduti ai tavolini dell’unico barretto e lo avrebbero fatto per
tutto il giorno, incuranti di tutto, assembrati e senza protezioni; i ragazzini con gli occhi alla deriva,
imbalsamati dentro vite in cui non si riconoscono più, che, nascosti sotto uno scivolo per bambini,
in pieno giorno di scuola, si impregnano di alcool e si intontiscono di canne; i tanti indomiti solitari
corridori, protetti e storditi dalle loro cuffiette e gli occhi lanciati verso una sorta di immortalità
campestre; tutti i volti intravisti: facce stanche, spaesate, vuote, sfiduciate, abbandonate, sospettose,
assenti, bellicose: ma soprattutto spente perché si è bruciata la lampadina e non sanno più come
cambiarla.
Roberto vorrebbe noleggiare un bus dove far salire tutti questi familiari sconosciuti, conoscere i
loro nomi per poi fare l’appello e sentire dire a ciascuno di loro: “Presente!”. Poi metterebbe in
moto con l’idea di portarli in gita in un luogo ampio e pianeggiante. Li farebbe scendere uno ad uno
con un sorriso e poi camminerebbero tutti insieme senza meta ma a portata di mano.

Il Piccolo Tour

Allison è una giovane ragazza americana con la passione per l’arte, che lei definisce quasi un’ossessione e una possibile fuga da un mondo familiare e arido che poco tollera. Una delle sue mete più ambite è visitare e vivere per qualche tempo in uno dei Paesi più ricchi di storia dell’arte: l’Italia. Come studentessa brillante riesce a ottenere un viaggio universitario nel Bel Paese, fermandosi a Firenze e iniziando poi a girare per vari paesi e assimilare in fondo l’arte che vede e vive. Ma incontra l’amore, un ragazzo italiano che le cambia la vita. È un amore complicato, difficile e passionale che si intreccia con la storia di formazione e che trova il suo dolceamaro epilogo con un figlio – ma anche con l’amore incondizionato di un’altra persona che assumerà la figura importante di padre del suo bambino. È un’opera che vuole ricalcare il fenomeno culturale e sociale del Grand tour in un mondo che nel frattempo è diventato piccolo.

Il romanzo è indubbiamente ben scritto. I capitoli intervallati, introdotti da una lettura “interiore” e arguta di capolavori dell’arte – che nella riflessione critica esplicitata arricchiscono la figura di Allison, protagonista assoluta del romanzo – contribuiscono e confermano le fattezze e le sorprese di un romanzo originale.

Una donna, un uomo

Una storia d’amore viscerale lunga quasi una vita. Una storia di molte andate e qualche ritorno. Una donna e un uomo, Marco e Giulia, due specchi identici.  Si incontrano, si inseguono e infine si trovano. Divorati dalla passione fino al punto di divorarsi a vicenda.  Sullo sfondo, ma protagonisti anch’essi, i cambiamenti epocali che il mondo ha vissuto negli ultimi quarant’anni, dalla nascita della globalizzazione al Covid. Eventi che in qualche modo disegnano le traiettorie dei due protagonisti. Un romanzo che si interroga su cosa sia veramente l’amore e che parla di seconde possibilità, più o meno sprecate, e di come il destino di ognuno è forse più forte dei propri desideri. Perché l’amore è tempo ed è esattamente il punto d’incontro fra quello che chiamiamo tempo interiore e tempo esteriore. Dunque, non identità fra due simili ma sovrapposizione tra due diversità.

Le quotidiane allucinazioni

Il filo conduttore di questa raccolta di racconti di Leonardo Lastilla è l’ allucinazione intesa come una dimensione percettiva alternativa alla realtà che libera gli individui dal peso dell’indeterminatezza.

Persi gli strumenti per dare un senso chiaro alla quotidianità, sia essa domestica, professionale o civica, i protagonisti di queste storie scelgono di trasfigurare la loro inadeguatezza e trovano rifugio e conforto in un immaginario molto credibile. Tra ironia e lucida preveggenza, il lettore si immergerà in un’ allucinazione letteraria che lo porterà a contatto con esistenze che potrebbero essere la sua. Trasportati da un linguaggio tanto rigoroso quanto poetico e fantasioso, questi ritratti umani spiazzeranno il lettore che si troverà rapito da un altrove familiare con cui poter dialogare. Le quotidiane allucinazioni si misurano con generi differenti e danno voce ai motivi ispiratori della visione della vita di Leonardo Lastilla. Gli eccessi del turismo, i desideri non realizzati, le abulie esistenziali introdotte dalla tecnologia, l’amore in tutte le sue forme e una Firenze ombra di se stessa, sono solo alcune delle trame di questa affascinante antologia.


Leonardo Lastilla è nato a Milano ma è cresciuto a Firenze. I suoi interessi e la sua curiosità lo hanno portato a risiedere in diversi luoghi, tra cui Dublino e Roma. Ha conseguito la Laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze e il Ph.D. in Letteratura italiana presso l’University College Dublin. Leonardo Lastilla è insegnante e docente di lingua e letteratura italiana, scrittura di viaggio, letteratura inglese e discipline umanistiche da più di 30 anni. Ha lavorato in molte scuole, istituzioni e università, in particolare università americane in Italia. Attualmente Leonardo Lastilla risiede a Empoli e lavora a Firenze con diverse scuole. Leonardo è poeta e scrittore.